Episodios

  • Turetta come modello. Il sistema come complice
    May 8 2025
    A Montecchio Precalcino, provincia di Vicenza, un diciannovenne si fa chiamare “Zeus”. Ha tatuaggi, profili social e una lista. Una lista “come quella di Turetta”: forbici, sacchi dell’immondizia, scotch, contanti. In calce, la dedica: «Turetta esempio modello». Lo scrive online pochi giorni prima di attirare la sua ex con una scusa: «sono scappato di casa per vederti». Lei ha diciannove anni, si era rifugiata da una parente a Mirano per non essere trovata. Ma lui la trova. La colpisce, la minaccia con un paio di forbici, le prende il telefono e la costringe a cancellare i contatti maschili. Poi scompare. Poi riappare. Minaccia anche la madre di lei: «Zeus viene ad ammazzarvi». Si filma sotto casa della ragazza. Viene arrestato. Dopo una notte in cella è già fuori. Obbligo di firma quattro volte a settimana. Per lui. Per lei: vigilanza attiva. Non può bastare per il divieto di avvicinamento. Serve un secondo episodio. È scritto così.
    Ci si chiede a cosa servano le lacrime, i fiori, i proclami se il codice rosso funziona solo a sangue versato. Se un ragazzo che pubblica un’imitazione puntuale di un femminicidio può ancora essere considerato solo un “ragazzino disturbato”. Se le parole sono sempre “scherzi”, le botte “una scivolata”, le forbici “un oggetto potenzialmente pericoloso”.
    Ma il punto è che non è pazzo, non è solo. È il risultato di una cultura che ha già archiviato Giulia, che usa Turetta come un meme, che allena ragazzi a considerare la violenza una prova d’amore. Un gioco da uomini.
    E finché il primo episodio sarà solo un preallarme, ci sarà sempre qualcuno pronto a testare il secondo.

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  • Let it be a tale: Israele distrugge, Abu Toha ricostruisce parola per parola
    May 7 2025
    Mosab Abu Toha ha vinto il Pulitzer mentre in troppi ancora si chiedono se le parole possano qualcosa contro la guerra. I suoi saggi pubblicati sul New Yorker non sono solo resistenza culturale: sono cronaca incisa nella carne, sono memoria che non chiede il permesso di esistere. Abu Toha scrive da poeta e sopravvissuto. Scrive per chi non può più parlare. Scrive con l'urgenza di chi ha perso tutto tranne la voce.
    “La Gaza che ci lasciamo alle spalle” è un titolo che sembra una resa, ma contiene invece un intero atlante di ciò che si vuole far sparire: un forno d’argilla, il costume di Spider-Man del figlio, le partite di calcio tra amici, le melanzane coltivate ai bordi dei campi. È la geografia sentimentale della distruzione. Perché ogni casa bombardata, racconta, è “una sorta di album, pieno non di foto ma di persone reali, i morti pressati tra le sue pagine”.
    Ha rischiato la deportazione dagli Stati Uniti, dove vive in esilio con la sua famiglia. Ha cancellato incontri pubblici per paura. Ha detto che è devastante essere al sicuro nel Paese che finanzia il genocidio della sua gente. Eppure continua a scrivere. Continua a raccontare la fatica di coltivare verdure in mezzo ai droni, la vergogna di chiedere a un fratello affamato di cercare un album fotografico sotto le macerie. La speranza che un aquilone visto da un bambino non sia solo un aquilone.
    Abu Toha ha raccolto l’eredità di Refaat Alareer, ucciso da un raid nel dicembre 2023. A lui risponde con la stessa formula: “Let it bring hope. Let it be a tale”. Perché se devono morire, allora qualcuno deve raccontare. È questo, oggi, il compito del giornalismo. Il resto è contabilità del silenzio.

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  • Gaza muore di fame, l’Europa di cautela
    May 6 2025
    Mentre Israele approva l’occupazione totale della Striscia di Gaza, il governo Netanyahu discute se far entrare o meno i camion con farina e medicine. Il gabinetto di sicurezza ha dato l’ok all’unanimità per una nuova fase della guerra: “conquista e mantenimento del territorio”. Un eufemismo per chiamare con freddezza militare ciò che è già una tragedia: due milioni di persone ridotte a combattere contro la fame, la sete e il silenzio.
    Nel frattempo, il ministro Ben Gvir chiede di bombardare le scorte alimentari di Hamas e afferma che “Gaza ha aiuti a sufficienza”. Nessuna ironia, solo l’indifferenza che diventa dottrina. Il capo di Stato Maggiore ricorda il diritto internazionale, ma viene zittito. Gli aiuti arriveranno solo dopo la visita di Donald Trump, come se un popolo potesse essere tenuto in ostaggio del calendario diplomatico.
    A Gaza, racconta la giornalista Rita Baroud, i bambini bevono acqua torbida e mangiano foglie d’uva crude. Le panetterie sono chiuse, le fattorie bombardate, i pozzi contaminati. Il pane è un ricordo, la carne un miraggio, l’acqua un lusso negoziato col potere. La fame non è una conseguenza della guerra. È una scelta deliberata, una strategia. La fame come arma, la sete come deterrente.
    Israele dice di voler evitare che Hamas si appropri degli aiuti, ma intanto la carestia avanza, i morti superano i 52.000 e le tende profughi si riempiono di corpi vivi che svaniscono. In Occidente, la parola “cessate il fuoco” si consuma sulle labbra, senza trovare mai le condizioni “adeguate”.
    Non è una difesa, è un piano di sterminio. Per avere successo ha solo bisogno di un esercito di vigliacchi fiancheggiatori.

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  • Olimpiadi da incubo: per il tubo di Zaia si affittano anche le promesse
    May 6 2025
    Per salvarsi dal rosso della pista da bob, il Comune di Cortina farà da B&B. È scritto nero su bianco nel piano economico redatto da KPMG e citato da Il Fatto Quotidiano il 4 maggio: 638mila euro di perdite ogni anno, 12,7 milioni in vent’anni. L’impianto “iconico” voluto da Zaia sarà pronto dopo l’inizio dei Giochi e resterà sulle spalle dei cittadini molto più a lungo. Per coprire il disastro, il Comune pensa di affittare appartamenti pubblici ai turisti: fino a 400 euro a notte. Gli stessi alloggi che da anni si promettono ai residenti. Si chiama valorizzazione immobiliare. Ma è una svendita.
    Nel 2023 la società Simico parlava di pareggio al quinto anno. Oggi la parola più usata è “deficit”. La voce principale? L’energia: 455mila euro solo per mantenere il ghiaccio. Più del doppio di quanto si incassa da tutte le attività agonistiche e turistiche messe insieme. La pista si userà per due mesi l’anno, se va bene. Il resto del tempo resterà lì, ferma, come una ferita aperta. Uno di quei monumenti all’insipienza che in Italia si costruiscono per sentirsi grandi. Salvo poi trovarsi piccoli davanti al conto.
    Il sindaco aveva detto di non dormire per l’ansia dei debiti. Ora sappiamo perché. Ma non sarà solo lui a pagare. A pagare saranno i cortinesi, con il patrimonio pubblico trasformato in rendita privata. Saranno le famiglie a cui si era promessa una casa. Saranno i contribuenti che finanziano un tubo inutile. Loro negheranno, negheranno ancora, negheranno come hanno fatto fin qui. Per salvarsi dal rosso della pista da bob, il Comune di Cortina farà da B&B. È scritto nero su bianco nel piano economico redatto da KPMG e citato da Il Fatto Quotidiano il 4 maggio: 638mila euro di perdite ogni anno, 12,7 milioni in vent’anni. L’impianto “iconico” voluto da Zaia sarà pronto dopo l’inizio dei Giochi e resterà sulle spalle dei cittadini molto più a lungo. Per coprire il disastro, il Comune pensa di affittare appartamenti pubblici ai turisti: fino a 400 euro a notte. Gli stessi alloggi che da anni si promettono ai residenti. Si chiama valorizzazione immobiliare. Ma è una svendita.
    Nel 2023 la società Simico parlava di pareggio al quinto anno. Oggi la parola più usata è “deficit”. La voce principale? L’energia: 455mila euro solo per mantenere il ghiaccio. Più del doppio di quanto si incassa da tutte le attività agonistiche e turistiche messe insieme. La pista si userà per due mesi l’anno, se va bene. Il resto del tempo resterà lì, ferma, come una ferita aperta. Uno di quei monumenti all’insipienza che in Italia si costruiscono per sentirsi grandi. Salvo poi trovarsi piccoli davanti al conto.
    Il sindaco aveva detto di non dormire per l’ansia dei debiti. Ora sappiamo perché. Ma non sarà solo lui a pagare. A pagare saranno i cortinesi, con il patrimonio pubblico trasformato in rendita privata. Saranno le famiglie a cui si era promessa una casa. Saranno i contribuenti che finanziano un tubo inutile. Loro negheranno, negheranno ancora, negheranno come hanno fatto fin qui.

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  • Il crimine nel nome della memoria
    May 1 2025
    Il 18 marzo è una data che resterà impressa nella coscienza di chi ha ancora il coraggio di guardare. Più di 400 persone palestinesi uccise in poche ore, molte delle quali erano bambini, in uno degli attacchi più feroci dell’ultima offensiva israeliana su Gaza. Una madre, Nesreen Abdu, e i suoi figli e nipoti, carbonizzati. È successo. Di nuovo. E succede ancora.
    Daniel Blatman, tra i massimi studiosi della Shoah, ha scritto su Haaretz parole che dovrebbero pesare come una sentenza: “Non avrei mai immaginato di leggere testimonianze su massacri compiuti dallo Stato ebraico che ricordano quelle raccolte al Memoriale dell’olocausto”. Blatman non è un attivista. È un archivista della memoria. E proprio per questo, la sua denuncia è più potente di qualsiasi slogan. “I miei peggiori incubi non avevano previsto tutto questo”, scrive. E poi osserva come i veri eroi di oggi siano i familiari delle persone liberate da Hamas che, nonostante il dolore, si aggrappano ancora all’umanità. Un’umanità che molti, in alto, hanno perduto.
    L’articolo ricorda Marek Edelman, comandante del ghetto di Varsavia, che disse: “Essere ebrei significa stare sempre dalla parte degli oppressi, mai degli oppressori.” Se chi ha conosciuto il genocidio diventa carnefice, la memoria si trasforma in propaganda. E allora quel “Mai più”, svuotato e tradito, diventa solo una scusa per altri massacri.
    Nel mondo che guarda in silenzio e nelle cancellerie che misurano i morti con la bilancia della convenienza, restano solo i fatti: bambini affamati, tende sventrate, cimiteri improvvisati. E la vergogna di chi conosce la storia, ma ha scelto di dimenticarne il senso.

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  • Gaza: la morte differita come strategia di guerra
    Apr 30 2025
    In un anno e mezzo di guerra a Gaza, Israele non ha soltanto cancellato vite: ha accorciato il futuro. Secondo uno studio pubblicato su The Lancet, l’aspettativa di vita dei palestinesi è crollata: meno 51,6% per gli uomini, meno 38,6% per le donne.
    Dietro i grafici ci sono i volti. Ci sono bambini che muoiono di fame a pochi chilometri da dove il mondo si interroga sulle calorie delle diete occidentali. C'è il latte che non esiste più, il pane che costa dieci volte tanto, l'acqua che non disseta ma ammala. Il cibo si misura in cucchiai di fagioli, quando c'è. Quando non c'è, si strappa l'erba ai margini delle strade, come raccontano le madri di Gaza.
    Uno studio separato pubblicato nel febbraio 2025 ha stimato che il numero reale dei morti è stato sottovalutato del 41%, portando il bilancio effettivo vicino a 64.620 vittime, contro i 37.877 dichiarati dal Ministero della Sanità palestinese.
    Ci sono donne che partoriscono in ospedali devastati, senza acqua, senza energia elettrica, senza nulla che somigli a una speranza. Alcune perdono il bambino in marcia, inseguite da cani addestrati a terrorizzare.Ci sono medici che non salvano più nessuno perché gli ospedali sono diventati bersagli. Oltre il 90% delle strutture sanitarie è stato distrutto.
    Il blocco degli aiuti, la distruzione dell'agricoltura, l'interruzione dell'acqua potabile, la fame usata come arma: ogni scelta compiuta contro Gaza non ha solo effetti immediati. È una dichiarazione di morte differita. Non basteranno cessate il fuoco di facciata né commozioni posticce a cancellare l'evidenza: a Gaza si è scientificamente bombardato anche il futuro.

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  • Se il consenso non c’è, si finge una telefonata: Trump docet
    Apr 29 2025
    Nel manuale delle presidenze in crisi, Donald Trump aggiorna l’appendice. Quando il gradimento affonda al 39%, il peggiore da settant’anni a questa parte, l’istinto suggerisce di evocare il prestigio delle relazioni internazionali, magari con una telefonata mai avvenuta. Xi Jinping chiama, dice lui. Peccato che Pechino smentisca, ufficialmente e per due volte, che ci sia stato un colloquio tra i due leader. Nessuna telefonata, nessun negoziato sui dazi, nessun segnale di apertura. Solo Trump che inventa, mentre il paese reale gli scivola tra le mani.
    A centri di rilevamento spenti, il Washington Post, l’Abc e Ipsos misurano il battito della presidenza. I numeri sono impietosi: il 39% di approvazione contro un 55% di disapprovazione, il 44% di giudizi fortemente negativi. La distanza tra Trump e il resto del paese si fa voragine, e il paragone con i predecessori è un altro schiaffo: Obama stava al 65% nei primi cento giorni, Biden al 52%. Trump non riesce a risalire nemmeno ai livelli del suo primo mandato. Anzi, peggiora. Tra le donne il gradimento precipita al 36%, tra gli ispanici al 28%.
    L’economia, un tempo vessillo della sua narrativa muscolare, oggi gli si rivolta contro: il 60% degli americani boccia la sua gestione, i dazi fanno più paura che orgoglio, e il protezionismo esasperato viene percepito come una minaccia diretta ai bilanci domestici. Trump, fedele al proprio stile, trasforma la politica estera in teatro d’ombre. Assomiglia a quella che avrebbe voluto essere mediatrice e invece è stata solo una comparsa nelle retrovie durante il funerale di Francesco. Per questo si piacciono.

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  • Fascisti che temono un lenzuolo
    Apr 28 2025
    Se c’è un’immagine che racconta questi tempi è quella di Lorenza Roiati, panettiera di Ascoli Piceno, che il 25 aprile appende un lenzuolo alla facciata del suo forno: “Buono come il pane, bello come l’antifascismo”. Due agenti si presentano per identificarla. Un atto di ordinaria amministrazione, spiegano. Ma l’ordinario non è mai neutro.

    Non è ordinario dover giustificare una scritta antifascista nel giorno in cui l’Italia celebra la Liberazione dal fascismo. Non è ordinario che chi espone un messaggio di libertà debba mostrare i documenti due volte, mentre gli striscioni intimidatori appesi da ignoti vengano lasciati lì, puzzolenti come la vigliaccheria di chi li firma nell’ombra. Uno di questi recita: “Dal quel forno un tale fetore, che diventa simpatico anche il questore”. Il fetore, in realtà, è quello di una stagione che torna.

    Il sindaco di Ascoli, Marco Fioravanti, Fratelli d’Italia, non ha dubbi: le vere vittime sarebbero i poliziotti “aggrediti” sui social. La panettiera? Strumentalizzata, dice. I fascisti che minacciano? Invisibili. Chi difende Lorenza è accusato di interrompere il lutto nazionale per il papa defunto. Mescolare il lutto religioso con il diritto a celebrare la Resistenza è un’operazione così oscena che nemmeno i peggiori governatori degli anni Venti avevano osato. L’antifascismo diventa uno sgarbo, un fastidio, un peccato.

    Intanto la politica si spacca. Matteo Ricci e Giuseppe Buondonno raccolgono solidarietà attorno a Lorenza. Elly Schlein, per una volta, trova le parole: “Quegli striscioni fascisti sono un insulto alla Costituzione”. Ma il problema è più profondo: un pezzo d’Italia ha smesso di vergognarsi del fascismo. E le istituzioni, quando non si girano dall’altra parte, danno una mano.

    Resta il lenzuolo bianco, appeso tra la paura e il coraggio.

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