Episodios

  • «Una Nakba ogni tanto»: il manifesto della vendetta
    Aug 18 2025
    Benjamin Netanyahu sogna una nuova Nakba. È la grammatica della forza, mentre in Israele i familiari delle vittime annunciano scioperi e blocchi per forzare un compromesso. A Gaza l’offensiva non si ferma: vengono colpite anche aree dichiarate “sicure” come Muwasi, i bambini continuano a morire, la fame è diventata struttura, l’acqua è contaminata, le malattie corrono. È il risultato di un assedio che ha trasformato la sopravvivenza in concessione politica.
    Nel frattempo riemergono le parole dell’ex capo dell’intelligence militare Aharon Haliva: per ogni vita spezzata il 7 ottobre “cinquanta palestinesi devono morire”, “anche se sono bambini”, “serve una Nakba ogni tanto”. Non sono scivoloni: sono la verbalizzazione di una dottrina. Il castigo collettivo come metodo, la morte civile di un popolo come prezzo accettabile. Quando il lessico della vendetta diventa politica, il genocidio smette di essere un’accusa e diventa la logica conseguenza.
    All’orrore sistemico si affianca una scena che resta negli occhi: il giurista Ghanem Al-Attar cammina alla ricerca d’acqua, vestito con la cura di chi rifiuta di consegnarsi al fango. È la lezione di Primo Levi attraverso il signor Steinlauf: lavarsi nel poco, tenere la schiena dritta, negare il consenso al carnefice. Dignità come ultimo diritto fondamentale.
    Per questo l’Europa non può più barattare il proprio silenzio con condizionali diplomatici. Servono sanzioni efficaci, embargo sulle armi, riconoscimento giuridico dei crimini in corso. Chiamare genocidio ciò che coincide con i suoi elementi costitutivi non è un abuso del linguaggio: è un dovere. Il resto è fuffa criminale.

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  • Accogliamo le vittime, investiamo nei carnefici
    Aug 15 2025
    Accogliamo i bambini che feriamo. L’Italia apre corridoi umanitari, annuncia l’arrivo di altri 31 piccoli pazienti da Gaza e rivendica di aver già curato più di 180 minori. Bello, giusto, necessario. Ma la foto è incompleta: mentre li abbracciamo sugli aeroporti, continuiamo a oliare i meccanismi che li hanno resi pazienti.
    Il 31 luglio Cdp Venture Capital, braccio pubblico dell’innovazione, entra nel round di finanziamento della israeliana Classiq (quantum computing). Denaro pubblico italiano che sostiene l’ecosistema tecnologico di Tel Aviv in piena guerra. «Strategico», dicono le note ufficiali. Strategico per chi?
    Sul versante militare, i flussi non si fermano. Nel 2024 l’Italia ha rilasciato 42 nuove autorizzazioni d’importazione di armamenti da Israele per quasi 155 milioni di euro e ne ha importati fisicamente per oltre 37 milioni. E verso Israele, sempre nel 2024, abbiamo esportato “armi e munizioni” per 5,2 milioni secondo Istat; tra dicembre 2023 e gennaio 2024 sono partite forniture da guerra per oltre 2 milioni, dopo gli 817 mila euro di ottobre-novembre 2023. Tutto mentre il ministro Tajani ripeteva che «dal 7 ottobre abbiamo bloccato i contratti».
    C’è una parola per questa scena di comodo: «childwashing». Accogliere alcune delle stesse vittime per coprire con sentimento ciò che si continua a finanziare con atti e bonifici. L’Italia che porta i bambini in ospedale è la stessa che investe nell’hi-tech israeliano e mantiene aperti canali d’affari militari. Finché non si tagliano quei flussi, l’abbraccio resta una posa: la carità a valle che serve a rendere accettabile la complicità a monte nella catena del genocidio.

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  • La notizia che in Italia non esiste: i soldi di CDP vanno a Israele
    Aug 14 2025
    Doppia contabilità italiana: in pubblico «linea critica» su Gaza, in riservato il braccio finanziario del governo compra startup israeliane. Cassa Depositi e Prestiti, fondo sotto il MEF da 4,7 miliardi, ha iniziato a investire in società israeliane, con focus su intelligenza artificiale e quantistica e l’obiettivo di portarne attività in Italia. La notizia è stata rivelata dal quotidiano economico israeliano «Globes».
    Nel pezzo si ricostruisce l’ingresso di CDP nel round di Classiq insieme a SoftBank (operazione valutata 20–30 milioni di dollari) e la strategia di «decine di milioni» su altre realtà, con la motivazione della «sovranità digitale» e della competitività del Paese. Le parole chiave arrivano dal responsabile degli investimenti diretti di CDP Venture Capital, Alessandro Scortecci, che rivendica il contributo alla competitività italiana «sul palcoscenico globale».
    Il passaggio politicamente più sensibile è attribuito a «una fonte israeliana di alto livello a conoscenza dell’attività del fondo»: Giorgia Meloni sarebbe «pienamente informata» del dossier e CDP viene considerata «uno strumento importante di politica pubblica», in coerenza con il programma da un miliardo per l’IA.
    Nel frattempo, il fondo sovrano norvegese avvia dismissioni da società israeliane: due traiettorie opposte nello stesso contesto di guerra e accuse di crimini internazionali.
    In Italia, su questo, nessuna prima pagina: eppure si tratta di denaro pubblico e politica estera. Palazzo Chigi e MEF riferiscano in Parlamento, rendano pubblici i documenti, aprano il dossier: l’ambizione tecnologica vive solo dentro un perimetro democratico verificabile.

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  • “Land, Not Life”: la formula di governo del genocidio a Gaza
    Aug 13 2025
    C’è un punto dirimente per dividere i collaborazionisti dagli analisti: il piano di Netanyahu non ha nulla a che vedere con la sicurezza o con la fine della guerra. È il compimento di una logica dichiarata: terra al posto delle vite. “Land, Not Life” non è un titolo a effetto, è la formula di governo. Prendere Gaza, non salvarla.

    Contro ogni evidenza strategica, l’esecutivo israeliano punta alla spoliazione civile e alla cancellazione fisica di chi la abita: un milione di persone spinte verso lo sfollamento forzato, in una campagna militare che non distingue più tra obiettivo militare e resistenza all’annientamento. Lo stesso establishment israeliano avverte il rischio di una trappola militare e morale, ma la coalizione al potere è salda: la visione messianica di “Greater Israel” giustifica ogni passo, ogni vittima, ogni rovina.

    Le vittime palestinesi quindi non sono un “effetto collaterale”. Basta ipocrisia: sono la condizione necessaria del progetto. È questo che rende Gaza il laboratorio di un genocidio visibile, annunciato, documentato giorno per giorno. Eppure, come da mesi, le cancellerie occidentali si rifugiano nelle formule di rito, rimandano, promettono verifiche, si limitano a “monitorare la situazione” mentre il terreno si riempie di fosse comuni e le mappe militari sostituiscono le strade delle città.

    Quello che a Gaza si consuma oggi non è l’ennesima pagina nera della storia: è un crimine in diretta, permesso dall’immobilismo di chi dovrebbe fermarlo e scelto da chi lo esegue come dottrina di governo. Mentre quelli si lambiccano sui termini stanno sprofondando le persone.

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  • Ma noi abbiamo visto già tutto
    Aug 12 2025
    L’ultimo atto della notte di San Lorenzo, a Gaza, non è stato uno spettacolo di stelle cadenti. È stata la luce livida di un’esplosione a illuminare la tenda di Al Jazeera accanto all’ospedale di al-Shifa, dove Anas al-Sharif e altri cinque membri della redazione sono stati uccisi. Un giornalista che aveva trasformato il suo obiettivo in testimonianza quotidiana del genocidio, e che per questo era stato indicato come “bersaglio” da una campagna diffamatoria dell’esercito israeliano. La sua unica arma era la verità, e l’ha pagata con la vita.
    Israele sostiene che “si spacciasse per giornalista” e che fosse con Hamas. È la stessa strategia che, da Shireen Abu Akleh in poi, cerca di neutralizzare le voci scomode prima di eliminarle fisicamente. La sequenza è sempre più chiara: prima la delegittimazione, poi il fuoco. La guerra di Benjamin Netanyahu non si limita a radere al suolo Gaza; punta a cancellarne anche la memoria, eliminando chi potrebbe trasmetterla al mondo.
    Mentre la fame uccide già cento bambini, mentre gli aiuti vengono colpiti e le “zone sicure” bombardate, il premier israeliano annuncia un’operazione ancora più vasta, ringrazia Donald Trump per il sostegno e respinge come “menzogne globali” le accuse di genocidio. In parallelo, dal 31 agosto, la Global Sumud Flotilla salperà con decine di imbarcazioni per rompere il blocco e consegnare aiuti, sostenuta da attivisti di oltre 44 Paesi.
    In fondo, la morte di Anas e dei suoi colleghi dice già tutto: non è un “effetto collaterale” ma il cuore stesso di una strategia che teme i testimoni più delle armi. Ma noi abbiamo visto già tutto.

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  • Netanyahu uccide, l’Europa paga, gli USA proteggono
    Aug 11 2025
    La guerra a Gaza ha consumato ogni brandello di umanità. Le cronache di questi giorni raccontano un orrore ciclico, una devastazione silenziosa che piega corpi e speranze. Il piano di Netanyahu — una conquista totale di Gaza — resta lontano dall’essere realizzato, frenato persino dall’opposizione interna e dalla “cabina di guerra” israeliana che ammonisce sui costi insostenibili, umani e strategici. La pressione internazionale aumenta: sedute d’emergenza all’ONU, parlamenti che si mobilitano. Ma più che a fermare il massacro, sembra si reagisca per salvare l’immagine che ancora si può salvare.
    E intanto a Gaza, mentre i grandi della politica si confrontano freddi, il dolore si legge negli occhi di chi ha perso tutto. I racconti dal territorio descrivono le infezioni, le ustioni, la cecità imposta dalle bombe e dal silenzio. Lì, ogni cura è un miraggio, ogni farmaco un’utopia. Ogni volto è un grido che il mondo rifiuta di ascoltare.
    B’Tselem, Amnesty e numerosi studiosi di diritto internazionale parlano ormai chiaramente di un disegno che travalica ogni logica militare per diventare pulizia etnica — o peggio. Ogni giorno 93 persone — tra cui donne e bambini — cadono vittime di un conflitto il cui vero obiettivo sembra essersi sdoppiato: da un lato la resa di Hamas, dall’altro l’annientamento di un’intera popolazione.
    Eppure, in questo squallido teatro umano, ogni passaggio verso la piena occupazione di Gaza rischia di essere l’anticamera di una guerra eterna. Gaza non è uno spazio neutro da conquistare, ma un popolo da cui partire. Anche ieri Gaza ha urlato, anche ieri il mondo ha taciuto.

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  • Chi occupa vince, se ha buoni amici
    Aug 9 2025
    Benjamin Netanyahu ha smesso di fingere. Ora è ufficiale: Israele si prepara a un’occupazione permanente della Striscia di Gaza. Non è più guerra, non è più rappresaglia. È colonizzazione. E a questo punto la domanda è tanto semplice quanto cruciale: la comunità internazionale intende applicare le stesse sanzioni che ha imposto agli altri invasori del nostro tempo?
    L’Iraq che occupa il Kuwait? Embargo totale, risoluzioni ONU, operazioni militari autorizzate. La Russia che invade l’Ucraina? Congelamento di riserve valutarie, esclusione dal sistema SWIFT, price cap sul petrolio, sanzioni mirate su migliaia di individui. Israele che occupa Gaza dopo averla devastata, assediata e spopolata? Nulla. Nessuna sanzione. Nessun embargo. Anzi: accordi commerciali privilegiati, rifornimenti militari e scudi politici a ripetizione.
    Il doppio standard non è più un sospetto. È un dato giuridico. Il diritto internazionale è chiarissimo: un’occupazione non può prevedere trasferimenti forzati, punizioni collettive, distruzioni sistematiche o blocchi umanitari. Eppure tutto questo è già realtà. E il Consiglio di Sicurezza resta paralizzato dai veti statunitensi.
    Ora che Israele non si nasconde più, neppure l’Occidente potrà farlo. I governi europei e i partiti italiani che hanno invocato le “regole” contro Mosca devono decidere se il diritto vale anche a Gaza. Se non lo faranno, l’eccezionalismo israeliano non sarà più solo tollerato: sarà legittimato. E con esso, il tramonto dell’ordine giuridico internazionale. Del resto ogni genocidio che si rispetti ha bisogno di una moltitudine di canaglie collaborazioniste, indifferenti e servi sciocchi.

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  • Israele bombarda anche il pane
    Aug 8 2025
    C’è fame, sì. Ma non per carestia. Fame indotta, calcolata, prodotta con metodo. Secondo i nuovi dati della FAO, oggi a Gaza resta accessibile e coltivabile appena l’1,5% delle terre agricole. In aprile era il 4%. Nel 2023, prima dell’assedio, Gaza era un cuore agricolo: 10% del PIL, mezzo milione di persone coinvolte, una varietà di colture locali che garantiva autosufficienza e dignità. Oggi è tutto cenere.
    Dal blocco totale imposto a marzo all’impossibilità di far entrare aiuti, fino al bombardamento sistematico di serre, orti, frutteti e pescherecci: l’agricoltura a Gaza è stata sterminata. E con essa i suoi abitanti. Più dell’86% dei terreni è stato danneggiato. A nord si arriva al 94%. In molti casi, come a Rafah, non si tratta solo di distruzione ma di occupazione: ciò che non è stato raso al suolo è stato reso inaccessibile.
    «Gaza è sull’orlo della carestia totale», avverte il direttore della FAO Qu Dongyu. Ma è già oltre l’orlo: centinaia di persone sono morte di fame, migliaia uccise mentre cercavano cibo. Michael Fakhri, relatore speciale ONU per il diritto al cibo, è chiarissimo: «Israele ha costruito la più efficiente macchina di fame che si possa immaginare».
    Si chiama ecocidio, quando la guerra devasta intenzionalmente l’ambiente. E in questo caso ha un solo scopo: rendere la vita impossibile. Distruggere ogni futuro. Affamare come strumento di dominio. Le caratteristiche tipiche del genocidio.
    Il diritto al cibo è diritto umano. A Gaza è diventato un bersaglio militare. Un altro indizio. Anzi, un’altra prova, l’ennesima, di ciò che accade a Gaza.

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